Le cose proseguono discretamente bene per Finmeccanica, il grande gruppo armiero italiano ma non troppo (vista l’origine nazionale dei suoi azionisti privati che si aggiungono al maggior azionista, lo Stato italiano): il primo F-35 made in Cameri (vicino a Novara) si è alzato in volo, il 7 settembre, accompagnato amorevolmente da un europeo (quindi, per molti, buono, a differenza degli F-35 yankee) Eurofighter. I cittadini cameresi e dei paesi limitrofi hanno potuto sperimentare, per un’ora e ventidue minuti, la resistenza dei loro timpani. Prossimamente potranno mettere alla prova ulteriormente l’efficienza del loro udito, ma per ora sembra esserci una tregua: il secondo volo tarda a realizzarsi, forse a causa dei notori problemi tecnici che hanno afflitto questo cacciabombardiere fin dalla produzione dei prototipi negli USA. Ad ogni modo voleranno, prima o poi, sopra le teste degli abitanti del Novarese, tutti i 90 F-35 confermati per l’acquisto dalle nostre autorità governative. È vero che i contratti si fanno per quote e che, per ora, se ne sono fatti per poco più di una decina di pezzi, però l’intenzione manifestata dal ministero della difesa è chiara: nessun taglio. Voleranno sulle teste dei novaresi probabilmente anche i pezzi destinati ai Paesi Bassi (37, ma non è così sicuro il numero). E poi basta: a Cameri non si produrranno aerei per altri Paesi, ma solo cassoni alari da mandare anche negli USA. È dell’altro giorno la notizia che la Norvegia ha fatto il suo primo acquisto, ma non da Cameri, bensì direttamente da Fort Worth, che sta nel Libero Stato del Texas, in USA. Ma Finmeccanica, e Alenia Aermacchi, sua società operativa per gli aerei da combattimento, non è solo F-35: di recente infatti è stato stipulato un bel contratto per la vendita di 28 Eurofighter al Kuwait, noto esempio di splendida democrazia mediorientale.
Non c’è comunque da meravigliarsi che gli affari dei Signori della Guerra continuino indisturbati: persino il papa può fare qualche accenno al fatto che vendere armi non è una bella cosa e persino lui può restare inascoltato da chi si genuflette davanti agli altari e magari partecipa ai sacramenti, ahinoi, da peccatore consapevole e persistente nel peccato a causa della debolezza della sua carne. Del resto anche il papa, se si legge bene, ha deprecato la vendita di armi a Stati inaffidabili (forziamo un po’ le sue parole per intenderne il vero significato): non ha certo detto che le potenze buone devono disarmarsi e partecipare al consesso della comunità internazionale in modo diverso rispetto a quello usuale fondato sulla politica di potenza.
Il fatto che l’Italia abbia truppe armate in giro per il mondo è cosa intesa come normale e magari anche meritoria, poiché far la guerra dicendo che si è contro la guerra è cosa che libera da ogni responsabilità e maschera bene la natura di guerrafondai dei politici bellicisti e dei prodi guerrieri sul campo di battaglia. Nulla di strano allora che l’Italia risulti impegnata in 24 missioni armate all’estero: tra le maggiori (per impegno di uomini e di mezzi) quelle nei Balcani, in Somalia, nell’Oceano Indiano (antipirateria), in Afghanistan, in Libano; ma non sono da dimenticare le “minori” in Iraq, Libia, Mali. Certo si tratta di missioni con una natura giuridica e con scopi differenti tra loro, ma la sostanza resta integra ed evidente: le missioni armate sono in senso proprio missioni di guerra, a prescindere dalla quantità di morti e di storpi che producono in una certa fase storica.
Mentre le guerre dilagano in diverse zone del pianeta, dal Medio Oriente all’Africa e persino all’Europa (in Ucraina), coloro che si definiscono pacifisti o antimilitaristi si trovano in difficoltà notevole di fronte alla propaganda dei diversi Stati e al mascheramento umanitario con il quale viene imbellettata ormai ogni operazione di guerra. Per molti si tratta di scegliere lo schieramento più congeniale al loro modo di vedere: i tifosi di questa o di quella parte in guerra dilagano, avendo ognuno le sue “buone ragioni” per sostenere la sua parte che è stata aggredita da qualche forza malvagia. Niente di nuovo sotto il sole: quasi tutte le guerre del passato hanno avuto protagonisti (e sterminatori) che si definivano semplici difensori del loro popolo o di altri popoli aggrediti dal cattivo di turno. Cercare di sfuggire a questo circolo vizioso non è certo semplice e non basta presentarsi in piazza sporadicamente a sventolare bandiere arcobaleno. Certo l’imminente (il 24 ottobre a Napoli) manifestazione nazionale contro la grande esercitazione NATO nel Mediterraneo programmata tra ottobre e novembre è cosa meritoria e servirà per riproporre all’attenzione dell’opinione pubblica quale sia la vera natura di un’alleanza militare che ormai nessuno in buona fede può definire meramente difensiva, però, lo sappiamo fin dal momento delle manifestazioni oceaniche del 2003, le piazze sono condizione necessaria ma non sufficiente. Dopo le sfilate restano le fabbriche di armi e di morte e restano le basi militare pronte ad alimentare guerre ed aggressioni.
Si dovrebbe quindi coltivare un’opposizione capillare e diffusa nei territori, far crescere l’ostilità delle persone contro chi produce e vende armi, ma anche contro le installazioni militari d’ogni tipo, in modo da rendere impossibile (o almeno molto gravosa) la presenza di forze armate infestanti le nostre contrade. Si tratta, è vero, di azioni da praticare sul medio e sul lungo periodo, ben consapevoli che non si potranno raggiungere nell’immediato grandi risultati, e però si tratta delle sole azioni che potranno procurare un qualche successo per pacifisti e antimilitaristi. Quando il primo operaio di una fabbrica di armi disobbedirà (dopo molti anni di piatta accondiscendenza persino delle forze sindacali prevalenti), potremo dire di essere davvero sulla strada giusta. A noi il compito di fomentare disobbedienza e diserzione.
Quali siano poi le azioni pratiche da intraprendere è cosa tutta da discutere e approfondire: bisogna essere poco velleitari e molto pratici, comprendere quanto sia possibile fare e quanto invece sia per ora irrealizzabile, quanto sia necessario fare e quanto invece arrechi solo danni e impedisca il conseguimento dell’obiettivo che ci proponiamo. Entrare nelle fabbriche di armi sarebbe cosa utilissima: iniziare una vertenza per la trasformazione dell’oggetto di produzione, per l’abbandono della meccatronica di guerra a favore di produzioni più umane. Ma, per fare ciò, è necessario costruire un contatto con i settori più consapevoli della classe operaia: cosa non facile, vista la propaganda diretta in modo sistematico addosso ai lavoratori, i quali, in molti, si inorgogliscono di essere al lavoro su oggetti tecnologici molto avanzati quali sono, oggettivamente, molti sistemi d’arma. Quando si parla di alienazione non si fa solo archeologia industriale, ma si descrive realisticamente la condizione di molti uomini ancora schiavi del lavoro, cioè dello Stato e dei padroni.
Dom Argiropulo di Zab